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Berserk è grande non solo per la strepitosa qualità dei disegni, l'appassionata e appassionante vicenda umana e militare di Gatsu, la cura dispensata nell'approfondire la psicologia dei protagonisti e la ricostruzione degli ambienti, dell'abbigliamento e delle battaglie. Kentaro Miura si è dimostrato infatti formidabile non solo nel creare un'aura di carisma intorno ai personaggi principali, ma anche intorno ai 'comprimari'. Fra questi, Wiald, il 'selvaggio' (è dir poco) avversario di Gatsu e della Squadra dei Falchi nei tankobon 10 e 11 (numeri 19, 20, 21 e 22 dell'edizione italiana), ha riscosso numerosi apprezzamenti.
Perché? Tutto si può dire di Wiald fuorchè il definirlo un personaggio positivo. Apostolo 'per vocazione', spinto a 'vendere l'anima al diavolo' non da un dramma umano (come nei casi del Conte o di Lucine) ma dal puro desiderio di soddisfare i suoi bassi istinti, riassume l'obiettivo della sua esistenza mostruosa nel motto, ormai celebre, 'Divertirsi e godere'. Sarà stata la sua ironia macabramente infantile, o lo scontro epico e cruento che l'ha contrapposto a Gatsu, ma questo Immortale, se non nella rosa dei personaggi preferiti, è entrato sicuramente nell'immaginazione dei lettori di Berserk. Ma è possibile che Miura, come ha fatto in altri casi, si sia ispirato a un personaggio realmente esistito per sviluppare la figura di Wiald? Questo, con ogni probabilità, non lo sapremo mai. Quella che segue è una ricerca che ho effettuato senza la pretesa di trovare certezze inesistenti: è stata una serie di sorprendenti coincidenze a condurmi su questa strada, e ad abbandonare la mia ipotesi iniziale, che vedeva in Wiald la trasposizione moderna dell'Homo salvaticus, l'uomo selvaggio (contrapposto all'uomo civile delle città comunali), figura dell'immaginario medievale che meriterebbe davvero un approfondimento a parte. Nel periodo delle Crociate, fecero la loro comparsa strane storie, fatte di un miscuglio di realtà e leggenda e incentrate sui cosiddetti Tafurs. Una buona parte - probabilmente la maggiore - dei componenti della Crociata del Popolo (la fallimentare spedizione guidata da Pietro l'Eremita nel marzo del 1096) perì durante il viaggio attraverso l'Europa; ma ne sopravvissero abbastanza da formare in Siria e Palestina un corpo di vagabondi, chiamati appunto Tafurs o Trudannes. Mentre il significato della parola Tafurs è rimasto ignoto, sappiamo che Trudannes deriva da trutani, 'i vagabondi'. Scalzi, irsuti, vestiti di tela di sacco a brandelli, coperti di piaghe e sudiciume, usi a vivere di radici ed erbe e persino talvolta dei cadaveri dei nemici, i Tafurs erano una banda così feroce che ogni paese da essi attraversato era devastato completamente. Troppo miseri per permettersi il lusso di spade e lance, essi maneggiavano randelli appesantiti con piombo, bastoni appuntiti, coltelli, accette, badili, zappe e fionde. Quando andavano all'assalto, digrignavano i denti come se intendessero divorare i nemici vivi, oltre che morti (proprio come i cani neri ^^). I musulmani, che pure affrontavano senza paura i baroni crociati, erano atterriti dai Tafurs, che essi definivano "non franchi, ma diavoli viventi". Gli stessi cronisti cristiani - ecclesiastici e cavalieri il cui principale interesse era narrare le gesta dei principi - pur ammettendo l'efficienza dei Tafurs in combattimento, li consideravano con evidente apprensione e imbarazzo, se non addirittura paura. Eppure, se si mette mano a due epopee in volgare scritte dal punto di vista dei poveri, la Conquête de Jérusalem (soprattutto le pagg. 65 e seguenti) e la Chanson D'Antioche (vol. II, in particolare le pagg. 254 e 255), si trova che i Tafurs vi sono descritti come un popolo santo e "più degno assai dei cavalieri". Le versioni originali di entrambe queste epopee in volgare furono composte all'inizio del XII secolo. Le uniche versioni rimaste sono quelle rivedute da Graindor di Douai all'inizio del XIII secolo; ma i brani concernenti i Tafurs non danno l'impressione di essere stati molto curati. Si è spesso ritenuto che le epopee fossero state scritte da un certo Richard il Pellegrino, ma sembra estremamente improbabile che lo stesso autore possa averle composte tutte e due. La Conquête de Jérusalem descrive la crociata dal punto di vista dei poveri. E' preziosa come guida per la psicologia più che per la storia esteriore della Crociata del Popolo in Oriente; e quanto racconta sui Tafurs sconfina nella leggenda. La Chanson D'Antioche fornisce sui Tafurs un resoconto più sereno, meno adulatorio e senza dubbio più accurato nei fatti. E' proprio nella Conquête che viene infatti posta in risalto questa 'santità violenta' dei Tafurs (e a pag. 72, i pauperes dell'armata provenzale appaiono in stretta unione con i Tafurs e sono descritti in termini molto simili). Vi si racconta anche che essi sono guidati da un personaggio enigmatico e inquietante, insignito dai suoi soldati del titolo di re, le roi Tafur. Questi sarebbe stato, a detta dell''popea, un cavaliere normanno che avrebbe rinunciato al cavallo, alle armi e all'armatura per un vestito di sacco e una falce. Almeno all'inizio egli era un'asceta per cui la povertà aveva tutto il valore mistico che avrebbe posseduto per san Francesco e i suoi discepoli. Re Tafur ispezionava periodicamente i suoi uomini. Chi veniva trovato con denaro addosso veniva espulso dalla compagnia e mandato a comprar armi e ad arruolarsi nell'esercito professionale dei baroni; mentre coloro che con estrema convinzione avevano rinunciato a ogni proprietà venivano ammessi al 'collegio', la cerchia interna dei seguaci. Era appunto a causa della loro povertà che i Tafurs si sentivano predestinati a prendere la Città Santa: "I più poveri la prenderanno: questo è un segno a indicare chiaramente che il Signore Iddio non si cura degli uomini presuntuosi e senza fede" (Conquête, pag. 163). Peraltro questi poveri, pur facendosi un merito della loro povertà, erano pieni di cupidigia. Ritenevano che il bottino strappato agli infedeli non diminuisse il loro diritto al favore divino, ma anzi confermasse quanto reale era quel favore. Dopo una fortunata scaramuccia fuori di Antiochia i poveri provenzali "galoppavano a cavallo fra le tende per mostrare ai compagni come la loro povertà sia alla fine; altri, indossati due o tre abiti di seta, lodano Dio come il largitore della vittoria e dei doni" (Raymond di Aguilers, Historia Francorum qui ceperunt Jerusalem, pag. 249). Mentre guida l'assalto finale a Gerusalemme, re Tafur grida: "Dov'è la povera gente che vuole il possesso di beni? Che venga con me!... Perché oggi con l'aiuto di Dio conquisterò abbastanza da caricare più di un mulo!" (Conquête, pagg. 165 - 166, e anche Anonymi Gesta Francorum, pagg. 204 - 205). E più tardi, quando i musulmani portano i loro tesori intorno alle mura della città conquistata nel tentativo di attirare i cristiani all'aperto, i Tafurs si mostrano incapaci di trattenersi. "Siamo in prigione?", grida il re; "portano tesori e non osiamo prenderli!... Che mi importa di morire quando faccio quel che voglio?". E implorando "san Lazzaro" (il povero Lazzaro della parabola evangelica, di cui i poveri del Medioevo fecero il loro santo patrono), egli guida la sua orda fuori dalla città verso la battaglia (Conquête, pagg. 243 - 253). In ogni città conquistata i Tafurs saccheggiavano tutto ciò che era a portata di mano, violentavano le donne musulmane e si abbandonavano a massacri indiscriminati. I capi ufficiali della Crociata non avevano alcuna autorità su di loro. Quando l'emiro di Antiochia protestò contro il cannibalismo dei Tafurs, i principi non poterono fare altro che ammettere: "Tutti noi insieme non siamo in grado di domare re Tafur" (Chanson, pagg. 6 - 7). Sembra infatti che i baroni temessero profondamente i Tafurs e che stessero attenti a essere bene armati ogni volta che capitavano loro vicini. Ma nelle storie raccontate dal punto di vista dei poveri, i grandi principi guardano re Tafur non tanto con ansietà, quanto con umiltà e persino con reverenza. Troviamo re Tafur che esorta gli esitanti baroni ad attaccare Gerusalemme: "Signori miei, che cosa stiamo facendo? Stiamo ritardando più del necessario l'assalto a questa città e a questa razza malvagia. Stiamo comportandoci come falsi pellegrini. Se dipendesse soltanto da me e dai poveri, i pagani troverebbero in noi i peggiori vicini che abbiano mai avuto!". I principi, ansiosi di seguirlo (o di sbarazzarsene), gli chiedono di guidare il primo attacco; e quando, coperto di ferite, egli viene portato fuori dal campo di battaglia, gli si affollano intorno per accertarsi della sua salute (o delle sue ferite). Ma re Tafur viene presentato come qualcosa di superiore al più valoroso fra i guerrieri 'normali'. Spesso appare strettamente affiancato da un propheta: in una versione è Pietro l'Eremita, in un'altra un vescovo fittizio che porta quell'emblema che i poveri avevano fatto proprio, la Santa Lancia (rinvenuta ad Antiochia da un contadino provenzale, al quale era apparso in sogno sant'Andrea). Ed egli stesso possiede chiaramente qualità soprannaturali che lo pongono al di sopra di tutti i principi. Quando - nella storia ad uso dei poveri - Goffredo di Buglione sta per diventare re di Gerusalemme, i baroni scelgono re Tafur, come "il più alto" per la cerimonia dell'incoronazione. Egli la compie ponendo sul capo di Goffredo un ramo di rovo intrecciato in memoria della corona di spine: e Goffredo rende omaggio e giura di tenere Gerusalemme come un feudo affidatogli da re Tafur e da Dio soltanto. E quando i baroni, sentendo di aver tribolato abbastanza, si affrettano a tornare in patria, per rivedere mogli e dominii, re Tafur non vuole vedere Gerusalemme abbandonata e si impegna a restare, con la sua armata di poveri, a difendere il nuovo re e il suo regno (Conquête, pagg. 64 - 67, 82 - 83, 191 - 193, 193 - 195). Figurarsi la gioia di Goffredo di Buglione e soprattutto quella dei poveri gerosolomitani superstiti. In questi episodi in parte immaginari il re - mendicante diviene il simbolo dell'immensa, irragionevole speranza dei poveri, tesa a conquistare il paradiso in terra con il proprio sangue e quello degli infedeli. La spedizione tendeva infatti per sua stessa natura a diventare quello che la gente comune voleva che fosse: una guerra diretta a sterminare "i figli di puttane", "la razza di Caino", come re Tafur chiamava i musulmani. E' facile, per il lettore di Berserk, trovare le caratteristiche che legano re Tafur a Wiald: l'alone di mistero e paura intorno alla sua persona, l'esercito famoso per la ferocia, il cannibalismo, l'immane desiderio di 'fare ciò che si vuole', la paura degli stessi alleati... Lo ripeto: non possiamo sapere se davvero Miura si sia ispirato a questa misteriosa figura per il suo Wiald; possiamo solo prendere atto delle singolari coincidenze, e ritornare a leggere Berserk.. ma.. e se Tafur volesse dire selvaggio? |